Mi chiamo Quinto, e sono l’ultimo di cinque figli. Cinque era il numero di figli che serviva, ai miei genitori, per andare ad abitare nelle case della Fondazione “Crespi Morbio”, in viale Monza angolo via S. Erlembardo, a Milano. Quindi quando sono nato hanno esclamato “Quinto!”, tutti felici. E Quinto, di nome e di fatto, sono rimasto.
Subito dopo la mia nascita, ci siamo trasferiti in quelle case: che erano molto belle, secondo noi, perché fuori c’era il cortile con gli alberi, i giochi e i fiori e perché dentro avevano anche il bagno con il water e la doccia. Proprio come succedeva in quelle dei ricchi. Anche se noi non eravamo ricchi, anzi, però non ci mancavano quasi mai i soldi per mangiare. Cosa che non succedeva proprio a tutti, né allora né adesso.
Comunque, in quelle case, la vita scorreva serena. Tutte le mattine, alle sette, ci svegliavamo, facevamo colazione e poi andavamo in bagno. Dopodiché mamma e papà andavano a lavorare mentre noi cinque figli, quando non giocavamo, studiavamo. Fino alla sera.
A Milano non c’erano tante case come la nostra, che avevano il cortile con gli alberi, i giochi e i fiori. E, a volte, pure i gattini, che stavano lì a osservare la nostra vita di umani. E vedevano che tutte le mattine alle sette ci svegliavamo, facevamo colazione, andavamo in bagno e poi uscivamo, per tornare la sera. Chissà: forse gli sembravamo strani. O un po’ ripetitivi.
Però a Milano c’erano tante strade in cui passavano le macchine: che servivano ai genitori per andare a lavorare, a guadagnare i soldi e poi magari a comprare le bottiglie di vino (per festeggiare l’arrivo dello stipendio, come facevano mamma e papà qualche giorno, la sera). Noi cinque figli, invece, ci limitavamo a giocare, a mangiare e a studiare: per fortuna non ci chiedevano ancora di andare a lavorare (però non ci permettevano nemmeno di bere le bottiglie di vino qualche giorno, la sera).
Solo che poi una mattina, era il 20 ottobre 1944, le sirene degli altoparlanti annunciarono l’arrivo dei bombardieri angloamericani: degli aerei con una stella disegnata sulla carrozzeria, che sganciarono delle bombe –non delle stelle- sulla nostra scuola. Noi però non c’eravamo, perché in quella scuola ci andavamo al pomeriggio, non la mattina, se no i nostri genitori ci avrebbero trovati morti come gli altri bambini, quelli di Gorla, che invece purtroppo in quella scuola ci andavano la mattina, non il pomeriggio.
Così noi cinque figli che abitavamo in quelle case, a Milano, abbiamo continuato ad andare nel cortile con gli alberi, i giochi e i fiori. Tutti i giorni. Qualcuno lì, in quel parchetto, si è pure innamorato. Che è anche una bella cosa. Solo che poi è andato in crisi: perché si è reso conto che sarebbe dovuto andare a lavorare, per poter guadagnare dei soldi, con cui mantenere la sua futura famiglia. E continuare così a sentirsi un re, dentro un castello: come ci sentivamo noi, in quelle case.
Nel frattempo i gattini non la smettevano di osservarci. La cosa che secondo me gli piaceva di più era guardare la mamma che cucinava, mentre noi stavamo al parchetto a giocare o a innamorarci (o tutte e due le cose insieme), e poi rientravamo a casa, per mangiare. Probabilmente si accorgevano che, la sera, il vino lo bevevano solo i nostri genitori, e noi mai. E magari si chiedevano perché: cosa che ci chiedevamo anche noi, ogni tanto. Ma poi, alla fine, ci andava bene anche così.
Però, per stare in quella casa che per noi era un castello, la mamma e il papà si erano dovuti trasferire da un paesino della Puglia, dove erano nati e si erano conosciuti, a Milano: la città con le macchine e con alcuni palazzi come il nostro, che avevano il cortile con gli alberi, i giochi e i fiori. Dove ci sentivamo dei re. Chissà se la mamma e il papà si sentivano dei re anche nel paesino della Puglia, dove erano nati e si erano conosciuti.
Nessuno comunque si dimenticava che a Milano c’era stata pure la morte, portata dai bombardieri angloamericani: gli aerei con la stella disegnata sulla carrozzeria che, come ci avevano annunciato le sirene degli altoparlanti, sganciarono le bombe –non le stelle- sulla nostra scuola. Costringendo altri bambini come noi a partire, per andare in un altrove chiamato aldilà. Non so se quei bambini si fossero portati la valigia con tutte le loro cose, nell’altrove chiamato aldilà, però io l’avrei fatto. Mamma e papà l’avevano fatto, quando si erano trasferiti da un paesino della Puglia a Milano.